L’Estate, i Nove Principi e i Fumatori di Pipa.

Prima di tutto mi scuso per la lunga assenza.
Ho passato una faticosa convalescenza a casa di parenti sulle montagne in un posto dove, in questo piccolo paese in cui viviamo, ancora non arriva la rete.
Come forse a qualcuno di voi sarà capitato, ogni tentativo di trovare segnale con l’Internet Key è stato vano.
Torniamo a dove eravamo rimasti.
Prima di raccontarvi di quando conobbi Dave Arneson nel settembre del ’70, vorrei dire altre due parole sull’estate di quell’anno, quando ero in attesa di una risposta al mio primo racconto inviato.
Fu un estate calma e silenziosa per me, almeno fino alla sera del 31 agosto, quando mi concessi un viaggetto a Milwaukee per assistere a un concerto dei Led Zeppelin.
Nell’attesa di una risposta ero incapace di scrivere altro.
Continuai a studiare, certo, ma non riuscivo a iniziare una nuova cosa prima di aver raggiunto una “conclusione” con l’altra. E’ un atteggiamento che ho avuto più o meno costantemente per tutta la vita.
E mi ha dato non pochi grattacapi, in più di un’occasione.
Leggere però non era un problema e la fortuna volle che a luglio arrivò sul mio scaffale preferito un libro che definire capolavoro è riduttivo.

Eccolo qui:

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Purtroppo è ancora ignorato dai più e inviso alle classifiche, eppure Nove Principi in Ambra è uno dei romanzi fantasy più influenti della storia. Anche al di fuori dei confini del genere. I primi due esempi che mi vengono in mente sono il Sandman di Neil Gaiman (grande ammiratore e amico di Zelazny) e l’inizio della serie tv The Walking Dead.
Come e perché, ve lo lascio scoprire.
L’edizione che vedete è molto rara e si trova a prezzi esorbitanti, a partire dai due-tremila dollari in sù. La maggior parte delle copie furono mandate al macero per errore. 
Tra l’altro ho sempre adorato la foto di Zelazny sul retro copertina anche se la annovero tra le ragioni per cui iniziai a fumare la pipa.
Un giorno mi piacerebbe scoprire quanti scrittori del fantastico abbiano fumato la pipa in un qualche periodo della loro vita.

Forse tutti.
Non mi sorprenderebbe.

Mucchi di Lettere, la Prima Pubblicazione e Un Incontro Importante

Le avevo in mano. Erano circa otto cartelle, che Gloria considerava buone.
Certo, il parere di Gloria non bastava, ma era sufficiente per avere il coraggio di inviarlo a qualche rivista.
Le riviste erano la principale pubblicazione di narrativa fantastica, in quel periodo. Ne esistevano dozzine.
Iniziai a scrivere lettere di presentazione, a cui allegavo Specie Protetta, il mio primo racconto. Era la storia di un avventuriero che si ritrovava sotto processo per aver ucciso un Drago nel regno di Hast, dove i Draghi erano considerati, appunto, una specie protetta.
Rileggendolo oggi mi rendo conto che era pieno di ingenuità, ma per uno scrittore esordiente andava più che bene.
Inviai una trentina di lettere.
All’epoca, specialmente negli Usa, dove la maggior parte delle case editrici erano nelle grandi metropoli (quindi a otto-dieci ore di viaggio magari) inviare il proprio lavoro via posta era la prassi comune.
Attenzione quindi se oggi a lamentarvi dei tempi di risposta da parte degli editori. In quegli anni come minimo vi sarebbe toccato raddoppiarli.
In ogni caso, non risposero affatto.
Nessuna delle riviste specializzate almeno. Perché a contattarmi invece fu un periodico locale.
Il Villager era quello che oggi chiameremmo un free press. Un bimestrale distribuito principalmente a privati, che si manteneva con la pubblicità di imprese locali. Era da poco passato di mano e il nuovo proprietario puntava a rinnovare i contenuti della rivista, perché la precedente gestione non aveva lasciato esattamente tutti i conti in regola. Sta di fatto che presero il mio racconto.
E fui pagato anche. Certo, una miseria, ma era pur sempre qualcosa.
Ma non era quello il vantaggio principale. La cosa per me straordinaria era che qualcuno mi avrebbe letto.
Il Villager aveva una tiratura che si aggirava tra le quaranta e le sessantamila copie. Non so in quanti lessero il mio racconto e fu l’unica volta che pubblicai su quel periodico.
Ma fu sufficiente.
Perché mi permise di conoscere Michael Larson, che divenne uno dei miei più cari amici e mi presentò uno degli uomini che più avrebbe influenzato la mia vita: Dave Arneson.

Per chi non lo sapesse sarebbe stato uno degli inventori di Dungeons & Dragons.

Il Principio del Lettore Assiduo, I Classici e L’importanza delle Correzioni.

E così mi misi a leggere sul serio.
Perché un conto è leggere un libro, un altro è iniziare a pensare quale sarà quello successivo, una volta oltrepassata la metà di quello che si sta leggendo. Non so se vi è mai capitato.
E’ una delle mie sensazioni preferite.
La mia regola è appunto di arrivare almeno a metà, prima di iniziare a guardare la vetrina della libreria. Così sono un po’ più sicuro di riuscire a finirlo. E’ il principio del lettore assiduo, come se ogni libro fosse soltanto una parte di qualcosa di più grande.
Dopo Lo Hobbit mi dedicai a quelli che oggi sono considerati i classici: Il Signore degli Anelli, Le Cronache di Narnia e Il Mago di Earthsea.
Un discorso particolare su quest’ultimo: Ursula K. Le Guin è forse una delle più grandi autrici di narrativa fantastica al mondo. Ce ne sono pochi come lei. Sebbene si sia in seguito concentrata principalmente sulla fantascienza, il ciclo di Earthsea è ancora oggi rivoluzionario.
Vi basti pensare che senza di lei, probabilmente oggi non avremmo Harry Potter (e guarda caso anche lì si tratta di una donna. Nessuno racconta l’apprendistato magico come le donne).
La prima metà del 1970 la passai così: leggendo e alzando la sbarra del cancello.
E mentre la lettura/studio procedeva, io iniziavo a scribacchiare qualcosa. Solo spunti inizialmente, magari brevi paragrafi. Non c’era ancora una struttura, un pensiero di fondo che riguardasse un’idea di storia compiuta.
Ogni settimana, facevo leggere tutto a Gloria. Ogni riga che scrivevo, anche quelle più insignificanti. Lei puntualmente correggeva tutto. Mi faceva notare gli errori, le ripetizioni, l’abuso di termini che ormai conoscevo bene. Mi spronava a sfogliare il dizionario (avevo comprato un dizionario) e a cercare nuove parole.
Non era facile ma verso la fine dell’anno avevo il mio primo racconto compiuto, di cui eravamo entrambi soddisfatti. Il suo titolo era Specie Protetta.
Ovviamente, c’erano di mezzo i Draghi.

Il Problema della Lingua, Un’Insegnante e Uno Hobbit.

La decisione era presa. Il passaggio successivo era incominciare a fare, e cioè scrivere. Non era facile.
Primo, non avevo idea di come si facesse.
Secondo, la mia idea era scrivere per qualcuno, cioè perché mi leggessero, quindi si presupponeva una certa preparazione.
So che oggi può sembrare strano, visto che lo fanno un po’ tutti ma allora la mia percezione era diversa. Non ti mettevi a riparare una macchina se non sapevi dove mettere le mani. La portavi a un meccanico. Ecco, più o meno era lo stesso.
Quindi dovevo imparare. Ma dove?
Oggi è pieno di corsi di scrittura creativa, nel 1970 no.
A scrivere si imparava a scuola. E poi c’era il problema della lingua, una cosa non da poco. Mi capitò di parlarne con zia Clotilde e saltò fuori che una sua vecchia amica, Gloria, una signora dai capelli bianchi di origine scozzese, insegnava in una scuola lì vicino e – zia ne era certa – per qualche dollaro sarebbe stata disposta a darmi lezioni private la sera.
E così fu. Iniziai a vedere Gloria ogni martedì e giovedì sera. Da principio fu un semplice corso di lingua inglese. Ma a poco a poco i mesi passavano, io imparavo e Gloria si impegnava sempre di più nello scegliere i brani che avrei dovuto leggere. Ricordo filastrocche, poesiole per bambini all’inizio; poi veri e propri testi di letteratura. La maggior parte mi annoiavano a morte.
Ogni tanto però capitava qualcosa che risvegliava la mia attenzione. Ricordo che mi colpì un brano da Ivanhoe. Quando Gloria se ne accorse, mi chiese (non l’aveva mai fatto) che cos’avessi intenzione di scrivere. Io le mostrai timidamente il libro della McCaffrey. Lei si appuntò il titolo e il nome dell’autrice e qualche altra nota che non ricordo.
Sta di fatto che, la lezione successiva, si presentò con un libretto sotto braccio. Era una vecchia edizione, un po’ malandata, eccola qui:

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Come immaginerete, il titolo non mi disse nulla se non che esisteva un’altra parola di cui non conoscevo il significato. Ma il brano che mi fece leggere…quello era straordinario. Iniziava così:

In a hole in the ground there lived a hobbit. Not a nasty, dirty, wet hole, filled with the ends of worms and an oozy smell, nor yet a dry, bare, sandy hole with nothing in it to sit down on or to eat: it was a hobbit-hole, and that means comfort. It had a perfectly round door like a porthole, painted green, with a shiny yellow brass knob in the exact middle. The door opened on to a tubeshaped hall like a tunnel: a very comfortable tunnel without smoke, with panelled walls, and floors tiled and carpeted, provided with polished chairs, and lots and lots of pegs for hats and coats – the hobbit was fond of visitors. “

Potete capire il mio stupore.
Immagino abbiate provato lo stesso, la prima volta che avete letto Tolkien.

Il James and Mary Laurie Booksellers, i Dragonieri e l’Immaginazione.

Era il dicembre del 1969 e le Twin Cities erano ricoperte di neve.
Non era l’inverno più freddo degli ultimi anni ma io comunque stavo congelando, alla ricerca di qualche regalo per zii e colleghi nel centro di Minneapolis.
Fu allora che vidi, nella vetrina di una piccola libreria chiamata James and Mary Laurie Booksellers, la copertina di cui vi ho parlato.
Eccola qui:

AnneMcCaffrey - DragonflightE’ probabile che quasi nessuno di voi abbia mai sentito parlare di questo libro. Sfortunatamente non credo sia più ristampato in Italia, così come le altre opere di Anne McCaffrey. Un vero peccato.
Il libro della McCaffrey è in realtà il collage di due racconti più vecchi (che vinsero anche alcuni premio) e il punto di partenza di quello che sarebbe diventato il ciclo dei Dragonriders of Pern.
Per un lettore di narrativa fantastica navigato, non presenta molti elementi estremamente originali.
I Dragonieri sono un gruppo di uomini che vivono lontano dalla civiltà in simbiosi con i loro draghi (Avatar? ecco, quarant’anni prima) e proteggono il pianeta Pern dall’invasione di spore mortali.
Ora, non mi soffermerò su tutti i pregi del libro (ve ne dico soltanto uno: non spiega, come fanno molti, la terminologia e la cultura del mondo. Dovete arrivarci da soli.) ma, qualora decideste di leggerlo pensate a questo: quando lo lessi non avevo idea di quale fosse l’Immmaginario della letteratura fantastica. Non avevo ancora letto Tolkien, Lewis, Howard, Leiber o Moorcock.
Partivo da zero. Per me fu una vera e propria scoperta.
Fortunatamente è un romanzo che non ha bisogno di riferimenti altri. Non ci sono elfi, nani, incantesimi e altre cose che si presume voi sappiate. Crea un universo a sè.
Lo lessi più volte, non ancora completamente padrone della lingua e ci misi parecchi mesi a capirlo e assimilarlo tutto. Ma quando lo finii decisi che quel tipo di storie era esattamente ciò che avrei voluto raccontare.
Perché avevo deciso di iniziare a raccontare a mia volta.

Un Passo indietro, il Fantastico e una Breve Lista degli Pseudonimi

Facciamo un piccolo passo indietro, torniamo in Italia, qualche tempo prima. Passiamo dal Drago sulla copertina del libro che vidi all’altro Drago.
Dopo aver letto il racconto di  Giorgio Piffer e aver imparato cosa fosse un drago, per qualche tempo feci alcune ricerche e incominciai a leggere.
La biblioteca di Trento, sfortunatamente non offriva molto a riguardo. Miti classici, un libro sui Nibelunghi e poco altro. Virai quindi sulla letteratura Fantastica.
La letteratura fantastica italiana è molto diversa da quella anglosassone.
Il fantasy moderno, già vecchio di un paio di decenni, da noi era quasi sconosciuto.
Un esempio noto: Il primo volume del Signore degli Anelli fu pubblicato nel ’67 ma dato lo scarso successo gli altri due non lo furono. Soltanto tre anni più tardi (ma io ero già in America) uscì il romanzo completo. Il fantastico italiano era folklore. Paradossalmente,  molto realistico.
Soltanto i futuristi, Salgari e pochi altri deviarono dal tracciato. Insomma, senza nulla togliere al suo valore letterario, a me interessava poco.
Fu così che, dopo qualche settimana da entusiasta, gradualmente smisi di leggere (fino a quando arrivai in America almeno).
E a questo punto mi permetto un’altra digressione, prima di riprendere il racconto da dove l’ho interrotto.
Il mio nome completo è Clemente Giovanni Massimo Marchi ma, che io ricordi, mi hanno sempre chiamato Mente. Con l’ingenuità tipica dei paesani, nessuno dava peso ai doppi sensi (non si pensava né al cervello, né al verbo mentire).
In America fu lo stesso ma lo pronunciavano più o meno Menti.
Questo andava bene nella vita quotidiana ma nella scrittura non fu così facile.
Da quanto mi fu commissionato il primo racconto per Worlds of Fantasy ( vi racconterò la storia) utilizzai, per le decine di racconti che pubblicai in seguito su riviste del genere, altrettanti pseudonimi, tra i quali: Mark Clemens, John Clemens, John Mente, Max Clemens, Cameron Smith, Emmett C. Clemens, Mark Mind, C.M. Archer, John Archer e infine quello con cui fu pubblicato il mio romanzo: John C. Mente.

Le Twin Cities, Lo Scotch e la Lettura.

Zia Clotilde viveva alla periferia nord di St.Paul, nel Minnesota. St. Paul era (ed è) la capitale dello stato ma l’estrema vicinanza con Minneapolis, ha fatto sì che da un certo momento in poi, tutti le chiamassero le Twin Cities.
Zia Clotilde aveva conosciuto zio Howard dieci anni prima, durante una vacanza sui grandi laghi, e si erano sposati poco tempo dopo.
I fratelli di zia Clotilde ancora vivevano a Boston, ma li vidi solo un paio di volte.
Zio Howard era un tipo bassino, tarchiato e fin troppo espansivo, per essere un americano del Midwest. Era uno dei responsabili della distribuzione nazionale per conto della 3M, ovvero la Minnesota Mining and Manufacturing Company che, per chi non lo sapesse, è la società che ha inventato e commercializzato lo Scotch.
Non il liquore, il nastro adesivo.
Non so bene perché, zio Howard mi adorò da subito. Forse erano i nostri tentativi di capirci a divertirlo o forse ero io, che annuivo compiaciuto a qualsiasi cosa dicesse. Fatto sta che fu lui a spingermi perché restassi.
C’è da aggiungere un particolare non trascurabile: Zio Howard e zia Clotilde non avevano figli. Erano una di quelle coppie che tentano per anni e nonostante non ci sia alcun problema evidente – da nessuna delle due parti – semplicemente qualcosa non va.
Zio Howard si prodigò per trovarmi un lavoro e farmi avere un visto. Dovetti fare un po’ di giri ma, in confronto a quello che bisogna fare oggi, all’epoca fu relativamente semplice.
Iniziai a lavorare quando ero lì da soli due mesi e biascicavo a stento la lingua. Ero il Gate Attendant di un deposito della 3M. Il mio lavoro consisteva sostanzialmente nell’aprire i cancelli quando uscivano ed entravano gli automezzi. A parte un notevole traffico alla mattina e dopo pranzo, dovevo per lo più stare lì a far nulla.
Questo mi consentì di avere molto tempo a disposizione per leggere.
Iniziai con quello che passava la casa,
le riviste da uomoCavalier, Playboy, Adam, Swingle, Debonair, tante foto, pochi vestiti, pochissime parole.
Non fu molto difficile.
Poi, un giorno, diversi mesi dopo, feci il grande passo e acquistai un libro: c’era un Drago in copertina.

Le Fiamme, Un Orfano e l’America.

Lasciamo perdere per un momento il Drago. Teniamo solo le fiamme.
Le fiamme che, passatemi la metafora, divamparono in tutta la penisola alla vigilia delle elezioni del ’68 – in verità già due anni prima, l’università di Trento era stata occupata e l’occupazione fu temporaneamente fermata, quasi a rafforzare il mio sconsiderato uso della retorica, da un’alluvione – e le altre fiamme, ovvero l’incendio che distrusse l’officina di mio padre, nel febbraio di quell’anno.
Nessuno seppe spiegarne le cause. Alcuni dissero fu per via di una perdita di benzina, altri di un guasto all’impianto elettrico. Fatto sta che mio padre e due dei miei fratelli, Beniamino e Giuseppe, morirono bruciati.
Il terzo fratello, Ignazio, ne uscì con ustioni terribili e sopravvisse solo qualche settimana agli altri due.
Ero orfano.
Mia madre ci aveva lasciato che ero ancora bambino, uccisa dalla polmonite.
Fortunatamente mio padre aveva un po’ di risparmi e con quel poco che avevo messo da parte anche io riuscii a dare a tutti un degno funerale.
Non proverò a descrivere come mi sentii. Non lo feci allora e non avrebbe senso  farlo adesso, dopo quasi cinquant’anni.
Chiunque abbia provato qualcosa del genere può immaginarlo da sé.
Mi limito a riportare i fatti perché ad essi è legata la ragione per cui lasciai l’Italia alla volta dell’America.
Una cugina di mio padre, Zia Clotilde, emigrata in America quando aveva sei anni, tornò a Trento per i funerali. Si prese cura di me e si trattenne per un paio di mesi.
Quando mi disse che sarebbe dovuta ritornare a casa, io scoppiai a piangere.
Non avevo pianto quando ricevetti la notizia dell’incendio, né durante l’orazione funebre.
Mi ritrovai in lacrime davanti a una signora che appena conoscevo.
Zia Clotilde ne fu colpita e mi propose di seguirla in America.
Per una vacanza, disse.

Quella vacanza durò quarantadue anni.

Un Tipografo, l’illustre Giambattista Vicari e il Drago.

Nella primavera del ’67  ero da poco rientrato a Trento, dopo quasi due anni di leva a Udine. I miei fratelli, tutti più vecchi di me, mandavano avanti l’officina di famiglia, sulla riva bassa dell’Adige.
Io, con diciotto mesi da carrista sulle spalle, di motori non volevo proprio sentirne parlare. Così mi toccò trovarmi un lavoro.
Fu per caso che Renzo, vecchio amico di famiglia e professionista della briscola mi disse che alle Edizioni Malfatti cercavano un operaio tipografico.
Neanche il tempo di capire cosa facesse un operaio tipografico che mi ritrovai con un cartellino da timbrare.
Incredibilmente (non saprei dirvi il perché) quel minuscolo editore di Ala stampava la rivista Il caffè letterario e satirico curata da Giambattista Vicari.
Io non avevo idea di cosa fosse la letteratura in quegli anni e tanto meno mi interessava. Credevo che la poesia fosse roba per vecchi.
Ma la rivista era di tutt’altro genere, come anche il signor Vicari.
Giambattista Vicari era un gentiluomo coi baffi (e di chi ha i baffi, dittatori esclusi, di solito ci si può fidare) che vidi una sola volta, da lontano.
Era inseguito da cinque o sei ragazzi che volevano sottoporgli i loro scritti.
Un consiglio: se volete pubblicare qualcosa è lecito inseguire chi potrebbe pubblicarvela. Ma non fatelo tutti insieme.
Uno di questi ragazzi si vedeva spesso in casa editrice ed ebbi occasione di conoscerlo meglio in seguito. Si chiamava Giorgio Piffer e aveva scritto un racconto fantastico intitolato La Macchina Furente.
Temo non sia mai riuscito a pubblicarlo e immagino di essere uno dei pochi ancora in vita ad averlo letto. Era una storia d’ispirazione futurista e parlava di un enorme autocarro che spruzzava gigantesche fiammate, radendo al suolo il centro di Vienna. Una metafora del Drago dell’Apocalisse, mi disse.
Io annuii, ma se avevo ben presente com’era fatto autocarro, non avevo la più pallida idea di cosa fosse un drago.
Vi sembrerà assurdo ma ai tempi non lo era.
Ci misi una settimana a trovare il coraggio per chiederglielo. Era il 30 settembre 1967 e quel giorno la mia vita fu in qualche modo segnata.

Certo, io non potevo ancora saperlo.