Mucchi di Lettere, la Prima Pubblicazione e Un Incontro Importante

Le avevo in mano. Erano circa otto cartelle, che Gloria considerava buone.
Certo, il parere di Gloria non bastava, ma era sufficiente per avere il coraggio di inviarlo a qualche rivista.
Le riviste erano la principale pubblicazione di narrativa fantastica, in quel periodo. Ne esistevano dozzine.
Iniziai a scrivere lettere di presentazione, a cui allegavo Specie Protetta, il mio primo racconto. Era la storia di un avventuriero che si ritrovava sotto processo per aver ucciso un Drago nel regno di Hast, dove i Draghi erano considerati, appunto, una specie protetta.
Rileggendolo oggi mi rendo conto che era pieno di ingenuità, ma per uno scrittore esordiente andava più che bene.
Inviai una trentina di lettere.
All’epoca, specialmente negli Usa, dove la maggior parte delle case editrici erano nelle grandi metropoli (quindi a otto-dieci ore di viaggio magari) inviare il proprio lavoro via posta era la prassi comune.
Attenzione quindi se oggi a lamentarvi dei tempi di risposta da parte degli editori. In quegli anni come minimo vi sarebbe toccato raddoppiarli.
In ogni caso, non risposero affatto.
Nessuna delle riviste specializzate almeno. Perché a contattarmi invece fu un periodico locale.
Il Villager era quello che oggi chiameremmo un free press. Un bimestrale distribuito principalmente a privati, che si manteneva con la pubblicità di imprese locali. Era da poco passato di mano e il nuovo proprietario puntava a rinnovare i contenuti della rivista, perché la precedente gestione non aveva lasciato esattamente tutti i conti in regola. Sta di fatto che presero il mio racconto.
E fui pagato anche. Certo, una miseria, ma era pur sempre qualcosa.
Ma non era quello il vantaggio principale. La cosa per me straordinaria era che qualcuno mi avrebbe letto.
Il Villager aveva una tiratura che si aggirava tra le quaranta e le sessantamila copie. Non so in quanti lessero il mio racconto e fu l’unica volta che pubblicai su quel periodico.
Ma fu sufficiente.
Perché mi permise di conoscere Michael Larson, che divenne uno dei miei più cari amici e mi presentò uno degli uomini che più avrebbe influenzato la mia vita: Dave Arneson.

Per chi non lo sapesse sarebbe stato uno degli inventori di Dungeons & Dragons.

Il Principio del Lettore Assiduo, I Classici e L’importanza delle Correzioni.

E così mi misi a leggere sul serio.
Perché un conto è leggere un libro, un altro è iniziare a pensare quale sarà quello successivo, una volta oltrepassata la metà di quello che si sta leggendo. Non so se vi è mai capitato.
E’ una delle mie sensazioni preferite.
La mia regola è appunto di arrivare almeno a metà, prima di iniziare a guardare la vetrina della libreria. Così sono un po’ più sicuro di riuscire a finirlo. E’ il principio del lettore assiduo, come se ogni libro fosse soltanto una parte di qualcosa di più grande.
Dopo Lo Hobbit mi dedicai a quelli che oggi sono considerati i classici: Il Signore degli Anelli, Le Cronache di Narnia e Il Mago di Earthsea.
Un discorso particolare su quest’ultimo: Ursula K. Le Guin è forse una delle più grandi autrici di narrativa fantastica al mondo. Ce ne sono pochi come lei. Sebbene si sia in seguito concentrata principalmente sulla fantascienza, il ciclo di Earthsea è ancora oggi rivoluzionario.
Vi basti pensare che senza di lei, probabilmente oggi non avremmo Harry Potter (e guarda caso anche lì si tratta di una donna. Nessuno racconta l’apprendistato magico come le donne).
La prima metà del 1970 la passai così: leggendo e alzando la sbarra del cancello.
E mentre la lettura/studio procedeva, io iniziavo a scribacchiare qualcosa. Solo spunti inizialmente, magari brevi paragrafi. Non c’era ancora una struttura, un pensiero di fondo che riguardasse un’idea di storia compiuta.
Ogni settimana, facevo leggere tutto a Gloria. Ogni riga che scrivevo, anche quelle più insignificanti. Lei puntualmente correggeva tutto. Mi faceva notare gli errori, le ripetizioni, l’abuso di termini che ormai conoscevo bene. Mi spronava a sfogliare il dizionario (avevo comprato un dizionario) e a cercare nuove parole.
Non era facile ma verso la fine dell’anno avevo il mio primo racconto compiuto, di cui eravamo entrambi soddisfatti. Il suo titolo era Specie Protetta.
Ovviamente, c’erano di mezzo i Draghi.

Il James and Mary Laurie Booksellers, i Dragonieri e l’Immaginazione.

Era il dicembre del 1969 e le Twin Cities erano ricoperte di neve.
Non era l’inverno più freddo degli ultimi anni ma io comunque stavo congelando, alla ricerca di qualche regalo per zii e colleghi nel centro di Minneapolis.
Fu allora che vidi, nella vetrina di una piccola libreria chiamata James and Mary Laurie Booksellers, la copertina di cui vi ho parlato.
Eccola qui:

AnneMcCaffrey - DragonflightE’ probabile che quasi nessuno di voi abbia mai sentito parlare di questo libro. Sfortunatamente non credo sia più ristampato in Italia, così come le altre opere di Anne McCaffrey. Un vero peccato.
Il libro della McCaffrey è in realtà il collage di due racconti più vecchi (che vinsero anche alcuni premio) e il punto di partenza di quello che sarebbe diventato il ciclo dei Dragonriders of Pern.
Per un lettore di narrativa fantastica navigato, non presenta molti elementi estremamente originali.
I Dragonieri sono un gruppo di uomini che vivono lontano dalla civiltà in simbiosi con i loro draghi (Avatar? ecco, quarant’anni prima) e proteggono il pianeta Pern dall’invasione di spore mortali.
Ora, non mi soffermerò su tutti i pregi del libro (ve ne dico soltanto uno: non spiega, come fanno molti, la terminologia e la cultura del mondo. Dovete arrivarci da soli.) ma, qualora decideste di leggerlo pensate a questo: quando lo lessi non avevo idea di quale fosse l’Immmaginario della letteratura fantastica. Non avevo ancora letto Tolkien, Lewis, Howard, Leiber o Moorcock.
Partivo da zero. Per me fu una vera e propria scoperta.
Fortunatamente è un romanzo che non ha bisogno di riferimenti altri. Non ci sono elfi, nani, incantesimi e altre cose che si presume voi sappiate. Crea un universo a sè.
Lo lessi più volte, non ancora completamente padrone della lingua e ci misi parecchi mesi a capirlo e assimilarlo tutto. Ma quando lo finii decisi che quel tipo di storie era esattamente ciò che avrei voluto raccontare.
Perché avevo deciso di iniziare a raccontare a mia volta.

Un Passo indietro, il Fantastico e una Breve Lista degli Pseudonimi

Facciamo un piccolo passo indietro, torniamo in Italia, qualche tempo prima. Passiamo dal Drago sulla copertina del libro che vidi all’altro Drago.
Dopo aver letto il racconto di  Giorgio Piffer e aver imparato cosa fosse un drago, per qualche tempo feci alcune ricerche e incominciai a leggere.
La biblioteca di Trento, sfortunatamente non offriva molto a riguardo. Miti classici, un libro sui Nibelunghi e poco altro. Virai quindi sulla letteratura Fantastica.
La letteratura fantastica italiana è molto diversa da quella anglosassone.
Il fantasy moderno, già vecchio di un paio di decenni, da noi era quasi sconosciuto.
Un esempio noto: Il primo volume del Signore degli Anelli fu pubblicato nel ’67 ma dato lo scarso successo gli altri due non lo furono. Soltanto tre anni più tardi (ma io ero già in America) uscì il romanzo completo. Il fantastico italiano era folklore. Paradossalmente,  molto realistico.
Soltanto i futuristi, Salgari e pochi altri deviarono dal tracciato. Insomma, senza nulla togliere al suo valore letterario, a me interessava poco.
Fu così che, dopo qualche settimana da entusiasta, gradualmente smisi di leggere (fino a quando arrivai in America almeno).
E a questo punto mi permetto un’altra digressione, prima di riprendere il racconto da dove l’ho interrotto.
Il mio nome completo è Clemente Giovanni Massimo Marchi ma, che io ricordi, mi hanno sempre chiamato Mente. Con l’ingenuità tipica dei paesani, nessuno dava peso ai doppi sensi (non si pensava né al cervello, né al verbo mentire).
In America fu lo stesso ma lo pronunciavano più o meno Menti.
Questo andava bene nella vita quotidiana ma nella scrittura non fu così facile.
Da quanto mi fu commissionato il primo racconto per Worlds of Fantasy ( vi racconterò la storia) utilizzai, per le decine di racconti che pubblicai in seguito su riviste del genere, altrettanti pseudonimi, tra i quali: Mark Clemens, John Clemens, John Mente, Max Clemens, Cameron Smith, Emmett C. Clemens, Mark Mind, C.M. Archer, John Archer e infine quello con cui fu pubblicato il mio romanzo: John C. Mente.

Un Tipografo, l’illustre Giambattista Vicari e il Drago.

Nella primavera del ’67  ero da poco rientrato a Trento, dopo quasi due anni di leva a Udine. I miei fratelli, tutti più vecchi di me, mandavano avanti l’officina di famiglia, sulla riva bassa dell’Adige.
Io, con diciotto mesi da carrista sulle spalle, di motori non volevo proprio sentirne parlare. Così mi toccò trovarmi un lavoro.
Fu per caso che Renzo, vecchio amico di famiglia e professionista della briscola mi disse che alle Edizioni Malfatti cercavano un operaio tipografico.
Neanche il tempo di capire cosa facesse un operaio tipografico che mi ritrovai con un cartellino da timbrare.
Incredibilmente (non saprei dirvi il perché) quel minuscolo editore di Ala stampava la rivista Il caffè letterario e satirico curata da Giambattista Vicari.
Io non avevo idea di cosa fosse la letteratura in quegli anni e tanto meno mi interessava. Credevo che la poesia fosse roba per vecchi.
Ma la rivista era di tutt’altro genere, come anche il signor Vicari.
Giambattista Vicari era un gentiluomo coi baffi (e di chi ha i baffi, dittatori esclusi, di solito ci si può fidare) che vidi una sola volta, da lontano.
Era inseguito da cinque o sei ragazzi che volevano sottoporgli i loro scritti.
Un consiglio: se volete pubblicare qualcosa è lecito inseguire chi potrebbe pubblicarvela. Ma non fatelo tutti insieme.
Uno di questi ragazzi si vedeva spesso in casa editrice ed ebbi occasione di conoscerlo meglio in seguito. Si chiamava Giorgio Piffer e aveva scritto un racconto fantastico intitolato La Macchina Furente.
Temo non sia mai riuscito a pubblicarlo e immagino di essere uno dei pochi ancora in vita ad averlo letto. Era una storia d’ispirazione futurista e parlava di un enorme autocarro che spruzzava gigantesche fiammate, radendo al suolo il centro di Vienna. Una metafora del Drago dell’Apocalisse, mi disse.
Io annuii, ma se avevo ben presente com’era fatto autocarro, non avevo la più pallida idea di cosa fosse un drago.
Vi sembrerà assurdo ma ai tempi non lo era.
Ci misi una settimana a trovare il coraggio per chiederglielo. Era il 30 settembre 1967 e quel giorno la mia vita fu in qualche modo segnata.

Certo, io non potevo ancora saperlo.